La “autocoscienza dell’Europa”, o “cultura”, è messa male. Come, del resto, ovunque. Tuttavia vi è coscienza e coscienza, cultura e cultura. La nostra, la cultura italiana, riesce a distinguersi in negativo persino nel marasma generale, reclusa ormai in un mondo di scempiaggini tra mura di cartapesta. E giorni fa, leggendo un recente libro di Alain Finkielkraut (Un coer intelligent, Gallimard-Folio -, ma esiste anche l’edizione Italiana, presso Adelphi), ho misurato ancora una volta la differenza, e l’entità del disastro. La cultura francese ancora sopravvive proprio perché vi si osa pubblicare testi come questo, che probabilmente da noi, se sarà notato, farà sghignazzare (non: ridere – vedi oltre). Ma ribellatevi, amici, leggetelo. Scoprirete in esso un tono che avevamo dimenticato, una commozione che impedisce di sghignazzare.
Naturalmente la nostra cultura letteraria fu finché ebbe un’anima. Cuori sensibili e maîtres à penser degni del nome. Oggi, rimpiangiamo maîtres veramente singolari: il severo Montanelli, commesso viaggiatore del pensato da altri; Enzo Biangi, ri-pensatore del non pensato, e parce sepultis. Li si cita con la dovuta devozione!.. Tra i vivi, un Michele Santoro. Un Adriano Celentano. Non ce n’è altri, della loro statura…
Dunque: la nostra cultura/letteratura è morta. Ma quando? Forse con Giovanni Comisso, poeta peculiare malgrado certo suo dannunzianesimo; …Cesare Pavese; …qualche stupendo accento di Pier Paolo Pasolini. Ancora qualche sussulto, l’Ordalia di Italo Alighiero Chiusano. E giù la saracinesca con la magnifica Ninfa Plebea di Domenico Rea. E poi…, poi basta.
La letteratura esiste finché sa parlare all’intelligenza, che è l’anima dell’anima. E, poiché l’unica strada aperta, per giungere all’intelligenza, passa per il cuore (si’: oso esprimermi all’antica), ebbene la letteratura è finché nel “luogo” che essa occupa c’è un cuore. Bando al disagio, all’imbarazzo, alla vera e propria vergogna che ormai proviamo quando si tratta di dire parole di cose vere (ad es.: “cuore”). Non siamo più ragazzini, possiamo sbagliare da soli. Finkielkraut apre la sua intelligenza (e pertanto il suo cuore) e, senza vergogna, parla ai cuori di chi ha abbastanza cuore da avvertire il richiamo. Ne vengono fuori meraviglie. Le meraviglie vere: che, come un tempo si sapeva, sono sempre di nuovo le meraviglie vecchie. E noi uomini, costruiti “in parte” per meravigliarci, da qualche tempo preferiamo annoiarci. Non si sa perché, o forse lo si sa: viviamo una vita divenuta un permanente supermercato. Comperare! E vender(si) per comperare.
Televisione? Mercato?… Ma è acqua passata. Anche da noi la televisione coltivò nelle coscienze l’idea velenosa che occorra essere sociologicamente “come si deve”, esser visti, pavoneggiarsi, dunque coltivare “il falso”. “Coscienza” significò quindi mostrarsi agli altri e saperlo, sentirsi presenti negli altri. E sotto la cartapesta, le leggi del mercato. Ripetere nei modi convenuti le solite ignobili lagne, altrimenti il Mercato non intende e, se non intende, non compera. La cosa importante è parlare la lingua che intende il Mercato. Andreste voi in giro per l’Irlanda parlando turco?
Ma tutto questo, ripeto, è acqua passata, perché ora c’è Internet. Lo usiamo tutti. E’ un mondo facile, ma irto di ricette. Sono esse le parole di un ignobile vocabolario, quello della Compravendita. Prescrizioni, parole che bisogna usare per essere compresi. E presentabili. Intendiamoci: anche la presentabilità (!) è, o puo’ essere, una merce, un oggetto di compravendita. Ma presentabili non “a corte”, come una volta, e neppure “in società”! No, presentabili ai commessi viaggiatori e alle commesse di magazzino che popolano questo nostro nuovo mondo che siamo noi. Tutto qui. Ed è tutto da ridere. Ridotti come quelle povere ragazze troppo grasse ma rinfagottate “alla moda”, che ancheggiano per essere comme il faut, ovvero come pretendono esse siano i nuovi giudici “tivù” dell’eleganza, i varî pacchiani ed altri “avanzi” di televisione, simili a loro, e che anzi sono loro e siamo noi.
Inconcepibile comicità: pacchiani, ci diamo arie tra pacchiani, ad uso di pacchiani. Spigliata, spiritosa “vita” d’oggi! Non più mercato televisivo. Basta televisione; oggi si deve essere interattivi. Essere interattivi è facile: basta dichiarare. “Piero ama Giusy”. Questo è amore. – “Carla mi manca”. Questo è morte. – ” Mi piace”. Questo è leggere. – “Ah, ah, ah!!!” Questo è ridere. Il pensiero come cartellone pubblicitario o come “graffito” dei tagueurs.
Invece di pensare, ridere, ricordare -, scrivere: “penso, rido , ricordo”, e stop. Facile, no?
Il diabolico persuasore che ci convinse che anzitutto occorra acquistare e vender(si), sa che time is money, ovvero che bisogna far presto. Siate subito cretini, fatelo presto, perché qui il tempo corre e la concorrenza vende. Chi di noi e tra noi, ormai, sa sorridere senza controllare, dico controllarsi, i muscoli della faccia? Chi sa più piangere in pubblico per la partenza del coniuge, come ho visto io fare ad una bella donna, nella stazione ferroviaria di Bressanone, tempo fa? Aveva l’elegante veste della contadina dell’Adige, non era stata ancora coinvolta nell’ignominia della moda. Il marito non andava a morte, certo; andava soltanto al suo servizio militare. Basta poco, per essere autentici. Ma oggi non più: ridete e piangete subito, diciamo quindici secondi ciascuno. Anzi, no: non “ridete”, ma “deridete”, perché ridere presuppone intelligenza.
La lettura di Finkielkraut, in tutti i testi che di lui ho letti, è disorientante: è vera e sincera. I nostri filosofi televisivi hanno si’ i loro analoghi all’estero: in Francia ad esempio Bernard Henri Lévy, quello col foulard, che sempiternamente non manca mai di dire la sua fesseria. Ma poi, accanto a lui, c’è dell’altro: Finkielkraut, ad esempio. Da noi invece questo altro non c’è, o, se c’è, si nasconde perché se si presentasse farebbe “ridere” (“ah,ah,ah”) tutti i telespettatori dello Stivale. Non ci facciamo mica prendere per il naso, noi Italiani! E’ in questo clima di finzione, creata per darsi arie tra “gentarella” che non meriterebbe tanta fatica, in questa società ormai simulata, è qui che dovrebbe nascere la letteratura!? La letteratura, che è l’arte di essere lentamente se stessi e basta: l’arte di non fingere. Figurarsi l’immediata crisi di rigetto!
Finkielkraut agisce con commossa precisione e costruisce il suo Coer intelligent avvalendosi dei testi di grandi scrittori di cui commenta il magnanimo gesto letterario, prendendosi tutto il tempo che occorre. Cito: “Oggi, uscendo fuori da un secolo distrutto dalle malefatte della burocrazia, che è una intelligenza puramente funzionale, e dell’ideologia, che è una sensibilità binaria indifferente ai destini dei singoli”, a quale Dio possiamo indirizzare la preghiera “di avere in dono un cuore intelligente”?
“Alla letteratura!”, risponde intrepido Finkielkraut. E infatti interroga, cita, racconta le trame e il senso, i testi e i messaggi della Blixen, di Henry James (Washington Square), di Dostoevski (il tremendo Memorie del sottosuolo), e di altri come Camus, Kundera, Philip Roth, Conrad…
Cito Finkielkraut: “Basta aprire la radio o guardare il video per rendersene conto: non viviamo più sotto il regime dei volti compunti. Oggi le bocche sono spalancate perché adesso prevale la derisione, non più la deferenza. All’epoca dei patibolari agelasti (accenno ai totalitarsmi; gli agelasti sono coloro che “non sanno ridere”) è succeduta quella degli irriverenti. Lo spirito della serietà è stato polverizzato dalla buffoneria. Da mane a sera, il pubblico che noi siamo è invitato a sbellicarsi. La risata è diventata la colonna sonora del mondo. Alla televisione, ho captato un animatore davvero moderno, ovvero disinvolto, che proponeva di scegliere, tra varie celebrità morte di recente, quella che aveva commosso, di meno il pubblico… I partecipanti, dopo aver emesso divertiti borbottii di spavento (“oh, Thierry, ora esageri!”), si sono docilmente disposti al gioco… Hanno votato compatti per la morte d’un cardinale…; il riso contemporaneo proclama alto e forte l’ideale della desidealizzazione… Che l’uomo possa oltrepassare infinitamente l’uomo, che possa avere una vocazione spirituale, che non si riduca alle proprie funzioni organiche, ecco una possibilità che queste risate vogliono cancellare dalla faccia del mondo, accanendosi contro la trascendenza…, giudicando l’anima un vecchiume, un qualcosa di sconveniente, un oggetto di derisione… I buffoni che un tempo rallegravano i re… oggi, tra le macerie della promessa comunista, propagano il tanfo vendicativo della comune bassezza… Il cardinale se lo tenga per detto: noi tutti non siamo che corpi che fornicano, che bevono, che mangiano, che ruttano…”
C’è risata e risata, avverte Finkielkraut. “Kundera definisce lo humour come ‘il lampo divino che scopre l’ambiguità morale del mondo’.” Ma appunto, bisogna distinguere: c’è riso e riso. “Il riso dello humour scombina le unioni (ritenute) sacre; il riso dei derisori designa le vittime sacrificali. Il primo sfida la muta; il secondo la scatena. Il primo è una modalità del dubbio, mentre i verdetti del secondo vengono indiscriminatamente giù, a cascata. Il riso dello humor scuote, mediante la fantasia, le sentenziose certezze dell’ideologia; l’altro taglia le teste che sporgono, e punisce, a colpi di derisione, tutti i non convinti, i ritardatari, i reazionari, tutti quelli che contravvengono, con il loro anacronismo, alle beffarde evidenze dello spirito del tempo. ‘L’uomo pensa, Dio ride’ dice lo humour, e cosi’ rompe l’autosufficienza del mondo; i derisori, ben al contrario, nuotano nell’immanenza e la loro trionfante giovialità largisce all’uomo democratico la doppia buona novella del livellamento di tutti, e della morte della risata di Dio”.
Ho tradotto estremamente alla buona; ma avete capito la tremenda antifona? Se si’, leggete Finkielkraut: è un nostro fratello maggiore.
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