“Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.” Genesi, 22
Entra l’autunno. Il sole obliquo si dibatte e soccombe anzitempo alla notte sotto le nebbie. In fondo il mondiale frastuono delle borse, le urla scomposte dei politicanti, il pattume giudiziario-giornalistico che incapaci di difenderci siamo costretti a subire mal s’appone a una stagione pensosa. Il quotidiano è ancora utile a ben lucidare i vetri al rientro dalle vacanze. Non altro. Ma oggi, qualcosa è cambiato.
Il tribunale di Caltanissetta ha ammesso la revisione del processo a Bruno Contrada. La notizia è dappertutto, perfino nel Corsera web che negli ultimi tempi si è specializzato in pettegolezzi da portineria e baggianate antigovernativo-giustizialistiche. Questa parola: “revisione” appare come un’orchidea misteriosamente fiorita in una discarica. Non staremo qui a raccontare la storia di un grande servitore dello Stato, palesemente innocente, incriminato dal pentitismo da cassetta e dai mestieranti dell’antimafia a piripacchio, sbattuto in galera al posto di chi, dolosamente lo accusò, non diremo dei suoi occhi accesi di sdegno e di stupore, delle sue indicibile sofferenze morali e di quegli eroici silenzi che solo un limpido amor Patrio può imporre alla voce d’un giusto.
Tutti sanno chi è Bruno Contrada. Pochi lo hanno difeso nel corso dei lunghi anni bui, nessun mestierante della politica garantista da strapazzo ha digiunato per lui.
Massacrato nel corpo e nello spirito ha condotto con disumana dignità la sua battaglia contro la morte della giustizia in Italia. E’ il simbolo pestato e ingiuriato del lungo letargo delle coscienze che ha gettato nel coma la nostra fragile democrazia.
C’è un giudice a Caltanissetta? Forse si, ed in questo “forse” si stringono, smagrite e febbrili, tutte le nostre speranze. Dalla malagiustizia tutti siamo stati, chi più, chi meno, danneggiati e feriti. Ecco: saremmo pronti a dimenticare le nostre piccole miserie, i nostri anni perduti, le vessazioni reiterate, se miracolosamente in fretta, venisse il giorno della piena riabilitazione del generale Contrada, se l’”Ingrata Patria” che ha preso a mani basse sputando sul generoso figlio, gli rendesse, al crepuscolo della vita onore ed anche gloria. Sapremmo in quel giorno che ancora un’Italia esiste e potremo tornare a riconoscerci in Lei per ricostruire insieme. Sapremmo che non siamo orfanelli vagabondi esposti ad ogni insidia del male, ad ogni mostruosa personificazione dell’odio e della vendetta. Sapremmo che solo dove c’è giustizia può esserci speranza e ricominceremmo a sperare.
Poi, certo ci sono le scartoffie, i rituali, i procedimenti e i cavilli. Ci sono gli iracondi e i vendicativi. Ed anche le toghe ringhiose che credono che la giustizia sia il proprio tornaconto ideologico. C’è la burocrazia. C’è pure Salvatore Borsellino. Presidenti della Repubblica e tribunali non hanno mai fatto un miracolo. Danni, molti. Tuttavia: è lecito chiedere un segno di esistenza in vita a questa brulla terra che vorremmo ardentemente chiamare ancora Patria?
La vera giustizia rifugge le chiacchiere e i trattati e si ripara nelle coscienze. La sua essenza non è forse di questo mondo, eppure vi abita. Che qualcuno bussi, per una volta, alla sua porta. Per Bruno Contrada, ma soprattutto per tutti noi.
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