Nella nostra coscienza, com’è noto, esistono parti, o meglio funzioni, diversamente specializzate: il “sentire” genera le intuizioni, e su queste poi s’innesta il “pensare”, con i suoi ragionamenti. Questi due modi della coscienza si diversificano anche in senso passivo, nel senso che su di essi non si puo’ agire nella stessa maniera: sul pensiero si può agire con la persuasione, alla quale il sentire è invece refrattario, perché quest’ultimo in effetti puo’ essere modificato solo mediante ciò che possiamo chiamare una sorta di contagio.
Ciò significa: io posso sperare di modificare il modo di pensare di qualcuno cercando di persuaderlo mediante ragionamenti diversi dai suoi, se non addirittura opposti ai suoi. Ma modificare con ragionamenti il suo modo di sentire è invece compito disperato: per modificare il sentire di qualcuno si deve attendere che egli venga contagiato, “animato”, da un sentire diverso. Non ricordo in quale dei suoi sempre interessanti scritti, Vittorio Sgarbi riferisce l’opinione del grande storico dell’arte Roberto Longhi, secondo la quale è negli ambienti ricchi di raffinate tradizioni d’arte che meglio fioriscono nuovi artisti. Ecco un caso lampante di contagio.
Poiché tutte le altre attività della coscienza, come il giudicare, il progettare, e persino l’agire, dipendono in ultima istanza da una iniziale decisione che corrisponde appunto ad una presa di posizione del sentire, si può dire che anche queste altre attività risentono molto più del contagio che della persuasione. E’ ormai da tempo, inoltre, che i pensatori più avvertiti ci ricordano che persino le più obiettive e raffinate teorie dipendono, in ultima istanza, dal modo di sentire del meditante di turno. Se cio’ non fosse, presto tutte le filosofie probabilmente confluirebbero in una o, forse meglio, sparirebbero, per carenza di intuizioni sulle quali eserciare i propri ragionamenti.
Gli esempi in tal senso sono infiniti; c’è solo l’imbarazzo della scelta. Se si considera con la dovuta attenzione l’insieme dei fatti che costituiscono il profilo di una data civiltà, la peculiare storia di un dato insieme umano, un modo di pensare collettivo, si scopre che è da dispositivi del genere di quelli qui sopra esposti che dipendono fatti altrimenti difficili da spiegare, come l’istituirsi di un dato “stile” artistico, il generarsi di usi e costumi, l’affermarsi di “scuole” di pensiero o di tradizioni giuridiche etc. etc. Che cosa è, infatti, uno “stile” architettonico come il romanico, il gotico, etc. etc., se non un peculiare modo di sentire la vita, che abbia contagiato un insieme di individui?
Come spingere un neofita verso una valutazione più raffinata del fatto d’arte, se non portandolo a frequentare persone, cose, ambienti di raffinato livello artistico? E analogamente, come convincere una persona ad emettere, o accogliere, un più equo giudizio su cose e persone, se non addentrandolo in casistiche, ambienti, mentalità che facciano tesoro del sentimento della “giustizia”? Come convincere certi magistrati nostrani che il sentimento della giustizia resa ad un “umiliato e offeso”, il coraggio di raddrizzare un torto, di smentire una menzogna, sono più eleganti, umanamente ammirevoli, di quanto non sia una appartenenza politica, il far parte d’una potente combriccola, il possesso di un appartamento costoso, d’un panfilo a Portofino, d’una Lamborghini, d’una semplice Mercedes, buscati a prezzo zero?
Queste poche considerazioni bastano a mostrare che l’educazione del sentire è importante non solo in età giovanile, ma ad ogni età dell’esistenza, cosi’ come lo è un retto comportamento in quanto esempio di vita. E’ attraverso una mai intermessa educazione del sentire che si può conseguire una matura civiltà del giudizio, tale da essere efficace presupposto di vita collettiva.
Occorre poi ricordare che il “contagio” esiste anche in negativo. In un ambiente malavitoso, ad esempio, è più facile diventare prima meno intransigenti contro i fatti di malavita, poi indifferenti, ed infine malavitosi come probabilmente sono una parte degli altri.
Certo, qui ci si imbatte nella ben nota difficoltà di giudicare fatti e soggetti collettivi: dove la diagnosi è necessariamente sempre percentuale e dunque, in buona sostanza, probabilistica. Si dice giustamente, ad esempio, che “considerando l’insieme dei giudici che popolano i nostri tribunali, la gran parte… etc. etc”. Si’, conosciamo l’antifona: la gran parte del personale giudicante è retta, onesta, giusta. Ma il giudizio negativo, oltre una certa soglia percentuale, inquina l’intero gruppo. Di cento cani, immagino ne bastino una trentina che siano molto mordaci perché si proclami che tutti i cani sono pericolosi. Ancora una volta, ed anche qui, il “sentire” d’una parte contagia l’intero, l’intenzione cattiva dei pochi prevarica su quella buona, magari ottima, di tutti gli altri. Restando nell’esempio dei giudici italiani, per semplice realismo bisogna dunque dire che, se i giudici irreprensibili sono la grandissima maggioranza, tuttavia l’amministrazione italiana della Giustizia forse (“forse”!) è in uno stato complessivo talmente malandato, “eticopoliticamente” inquinato, da contagiarne buona parte, e da consentire una situazione d’insieme che grida vendetta. In altri termini: i giudici professionalmente corretti, se come è giusto pensare sono in maggioranza, dovrebbero al più presto attivarsi in questi compiti di denuncia e di rieducazione morale anche per difendere se stessi, oggi ingiustamente coinvolti e gettati nel non consolante calderone d’insieme.
Esiste dunque un contagio negativo (che è, poi, esemplato dal contagio per antonomasia, quello noto in ambiente sanitario!) che con il tempo genera appunto la progressiva diffusione del negativo. Da noi questa diffusione è operante da decenni; ed un decennio forse già basta per inquinare un continente. C’è, e c’è stato, tutto il tempo che occorre per produrre una vera e propria endemia. In un ambiente cosi’ degradato, quale si è autorizzati a credere sia la nostra società non solo da un punto di vista tribunalizio, una riconversione al “retto sentire” diventa di giorno in giorno più urgente, e più ardua. Si direbbe (ma è da sperare che questa sia solo un’impressione generata dallo scoramento) che ormai questa riconversione sia impossibile. Impossibile da inaugurare, qualora manchi del tutto, per le difficoltà obiettive e gli ostruzionismi subito ingenerate dall’ambiente, e poi impossibile da protrarre, e magari trasformare in costume, appunto per l’assenza di esempi da seguire.
Che fare? Effettivamente gli ultimi anni sembrano attestare uno scivolamento ormai irreparabile. Quale l’aiuto che potrebbe dare una adeguata azione di natura politica? Si parla giustamente di realtà etico-politica: perché tanto la vita morale quanto quella politica rientrano entrambe, senza residui, come “specie”, in un “genere” unico che è quello dell’utile (“economia”). Questa riuscita identificazione teorica, non troppo recente, ha consentito al pensiero politico, e al pensiero in genere, utili estensioni ed ovviamente anche utili esclusioni. Fatte i debiti distinguo, il politico è utile alla società tal quale un calzolaio o un panettiere. Per cui, ad esempio, la raccomandazione che Plinio attribuisce ad Apelle: ne sutor ultra crepidam! – “ciabattino, non giudicare al di là delle tue ciabatte!” – si può applicare pari pari al politico che indebitamente si occupi del machiavellico particulare, o al giudice che altrettanto indebitamente si metta a far politica o che badi al vantaggio del proprio gruppo. Anche a costui si può, anzi si deve urlare, “giudice, occupati delle tue ciabatte e stop!” La società, in linea di principio, ha assegnato a ciascuno le ciabatte che gli competono.
E’ da credere che da noi la malinconica realtà della “maggioranza silenziosa” sia assai diffusa. C’è molta, troppa gente per bene che, benché sdegnata, tace. E’ la realistica constatazione di Voltaire: “il guaio delle persone per bene è che spesso sono codarde”. E allora, bisogna ricordarsi della legge del contagio di cui parlavamo più sopra: rendersi conto che, se in una società malandata ciò che è all’origine del male è uno scadimento progressivo del “retto sentire”, il modo migliore, se non l’unico possibile, di migliorare la situazione non è quello di fare la predica, che scivola sul “sentire” come acqua fresca, bensì quello di agire sulla panoplia dei sentimenti con l’esempio, e con la passione di ciò che è giusto e di ciò che è vero. E ancora, che bisogna anche, con sollecitazione opposta, mostrare quanto sia miserabile e persino antiestetico il venir meno a ciò che la società degli onesti si attende da noi. Ed a questo riguardo, è da ricordare che il “farsi coraggio” è tra i non meno importanti casi di quel contagio di cui abbiamo parlato finora. E’ noto che, ai tempi delle guerre di trincea, la presenza di un comandante coraggioso riusciva a far coraggioso l’intero drappello dei suoi soldati.
E, quanto a contagio negativo, si potrebbero citare le migliaia di “opera d’arte” di terzo e quarto ordine che ormai popolano i “musei d’arte moderna” di mezzo mondo. Il cattivo gusto si diffonde con le stesse modalità di una grippe. Idem per l’insensibilità al ridicolo. Qui si potrebbe citare, come esempio paradigmatico, la famosa ridevolissima foto di Francesco Borrelli il quale, sormontato da una specie di coppola a pentola rovesciata, le misere spallucce ricoperte da vestimenta da “cacciatore alla volpe”, la tremebonda pancetta incollata sul dorso d’un ronzinante qualsiasi, si dava arie venatorie. Quanto sarebbe stato meglio, per lui, indossare il semplice doppiopetto del giudice! (Non per noi, è vero: perché avremmo riso di meno). Ancora e sempre, ne sutor ultra crepidam!
E allora coraggio: diamo il buon esempio e predichiamo il positivo senza lasciarci intimidire dall’idiota clima salottiero della società politicalcorretta! Ricordo già una quindicina d’anni fa, in un consesso di politicizzate ninfe, mi permisi di alludere alla necessità urgente di ritornare ad un retto sentire ed alla tranquilla, magnanima esibizione del medesimo. La più vivace di quelle dame salto’ su come una molla e urlo’, additandomi alle altre quasi a ludibrio: “ma come! Crede ai buoni sentimenti, lui!”, e giù risatacce e prese in giro. Era ancora l’eco del “68”: eco che del resto continua tuttora a risuonare.
Quella esiziale eco risuonerà ancora a lungo. Ma intanto anche la nostra società continua a colare a picco, avvelenata dalla idiozia e dal cattivo gusto. E principalmente dalla intermessa educazione del sentire, in passato tanto curata non solo presso le famiglie borghesi, ma anche tra quelle di artigiani e di contadini. Mi piace qui ricordare che un mio zio, Antonio Ciamarra, al tempo della Prima Guerra Mondiale, sul Carso, si fece quasi macellare e perse il braccio destro per pilotare il suo plotone a sfondare i reticolati austriaci. È stato poi Presidente delle Medaglie d’Oro italiane per più d’un venticinquennio. Buon avvocato, non era uomo né colto né di troppo sottile pensiero. Si limitava a sentire l’amore per la sua terra e per gli uomini che la abitavano, ed anche che sarebbe stato idealmente vergognoso permettere alle anime tiepide di parlare con leggerezza, e magari con derisione, dell’Italia. E si comportò in conseguenza.
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