Sera d’está. Pusilleco lucente
canta canzone e addora d’erba ‘e mare.
Voglio ‘e pparole cchiù d’ammore ardente,
voglio ‘e pparole cchiù gentile e care
pe’ dí “te voglio bene” a chi mme sente.
Ma d’ ‘e pparole cchiù carnale e doce,
ne sceglio sulo tre: “Te voglio bene”.
Bella, ‘int’ ‘o core tujo sacc’io chi tiene,
chi sta int’ ‘o core mio saje pure tu.
P’ ‘o mare ‘e Napule
quant’armunia.
Saglie ‘ncielo e, ‘ncielo, sentono
tutt’ ‘e stelle, ‘a voce mia.
Voce, ca tènnera,
st’ammore fa.
Inutile bussare a quelle porte che un tempo vegliarono sul chiasso festante e operoso dei napoletani di un tempo. La vera Napoli non abita più li. Scappando, tanti di noi se la sono portata dietro, nella valigia dell’emigrante. Laggiù è rimasto il folklore – il peggiore – l’ignavia, e il burraco.
Si dice che occorrano tre generazioni per creare un gentiluomo. A noi è bastata una soltanto per estinguere la specie.
Napoli ebbe come tutte le grandi capitali un passato burrascoso: sangue ed oro, poesia e massacri, aurore umide di speranza e minacciosi tramonti infuocati. Re e lazzaroni: la più dualista delle città, infinita nelle sue spirali d’architetture “dilatate e composte” partecipi del cielo e dei labirinti nebbiosi delle viscere della terra.
Città d’arte e di fantasmi, di teatri e biblioteche, di case impossibili che attraversavano in alto due o tre palazzi nascondendo anime in ogni stanza, il variegato mondo delle famiglie, i nonni, le zie “zitelle”, le monache di casa, lo studente – ce n’era sempre uno – le tate del Cilento ed i bambini. Il professore universitario del piano di sotto, vecchissimo e compito, si toglieva il cappello davanti alle signore in ascensore, e si scostava senza ostentazione per cedere loro il passo. Nei salotti vegliava, in una cornice d’argento sempre lucidata con meticolosità, la foto del caduto della guerra mondiale, nume tutelare dell’amor patrio da tramandare ai posteri come una reliquia. E i reduci, che il fato aveva sottratto alla Parca rendendoli padri, e poi nonni accompagnavano le nipoti al liceo ogni mattina, anche se distava pochi metri e seminavano il panico nei professori, prendendo a colloquiare con disinvoltura in greco antico. Un mondo operoso di antichi mestieri ruotava intorno alla famiglia: il materassaio, la sarta a domicilio, l’insegnate di pianoforte, il portinaio, il fruttivendolo, il lattaio.
Persone. E parole, tanto diverse per ciascuno eppure tanto uguali nel comune carattere, nell’amaro sorriso, la bonomia conciliante, nel disordine creativo e la fierezza d’essere “fatti della sostanza di cui sono fatti i sogni” anche se un po’ alla buona.
Persone che avevano cose da raccontare la loro Napoli e voglia di ascoltare la Napoli degli altri. Non era sorprendente che il titolare del chiosco delle limonate, o del callo di trippa, affidasse ad un volenteroso la ditta per accompagnare un curioso a visitare una chiesa, della quale tutto sapeva e cio’ che inventava non poteva che accrescerne il fascino.
Borbonici e savoiardi, monarchici e repubblicani, lauristi e socialisti, i figli di Partenope vivevano le loro dicotomie con ironica pacatezza, senza risentimento.
E levando lo sguardo, un po’ sopra quelle migliaia di occhi febbrili che “arraggiunavano”, Napoli c’era.
Stracciona e regina, serva e padrona. Il suo mare, sempre pronto a spazzare con la brezza salata il puzzo dei motori, i ladruncoli, l’anagrafe surreale (no, non potete votare, siete morto) l’autobus stipato come una scatola di sardine, i cucchiaini col buco al bar (accussi’ nun se l’arrobbano), il parcheggiatore abusivo con tanto di biglietto da visita, Napoli c’era con la forza dirompente della sua memoria autentica che chiamava le anime per nome perché ciascuna si mobilitasse, a modo suo,a salvarne identità e decoro.
Ciascuna a modo suo.
E’ la molteplicità dei pensieri che si incontrano, si allacciano, si scontrano e si accoppiano cio’ che fa la storia e la vita di una città.
Il pensiero unico, uccide. Ideologia e conformismo hanno fatto di Napoli la caricatura di se stessa. La vera ragione sociale del “Rinascimento napoletano” è stata la distruzione sistematica della memoria storica, dell’autenticità, dell’unicità, e la creazione di un nuovo partenopeo programmato per acclamare e beffeggiare a comando, che si scappelli di fronte al Madre e alle supposte di acciaio della villa comunale e non sappia dove visse Gianbattista Vico, dove sono San Giovanni a Carbonara e la chiesa del Purgatorio all’Arco, che ignori che Posillipo vuol dire in greco tregua degli affanni e che canti a squarciagola: ”quant’è bella, quant’è bella / a città e Pullecenella”.
Il risentimento regna sovrano nelle strade ove ogni passione è spenta, ogni voce messa a tacere e chi non si uniforma al pensiero unico viene additato come un cialtrone ed emarginato come un appestato.
La spazzatura è l’immensa puteolente metafora di una mutazione genetica che si avvia ad essere irreversibile. Più devastante del Vesuvio che sotto le ceneri lascio’ integre la civilità, la storia e la bellezza. Non ci sarà nessun Plinio a raccontare questi roghi pagando con la vita la sua sete di conoscenza.
“Gesù, fate luce!” imploro’ Mimì Rea, sublime narratore di Napoli dimenticato perché “non a norma”. Cosa direbbe oggi, se il fato pietoso non avesse anzitempo sottratto al suo cuore chiaroveggente il fotogramma osceno d’una terra cieca e smemorata? “I classici, non leggono i classici. Non hanno letto Dante, non sanno chi è Basile” Tuonava in quel salotto dove il golfo entrava tutto intero, gli occhietti inferociti dietro i proverbiali fondi di bottiglia.
Pessimismo e speranza d’un riscatto possibile. Ed è il miracolo dell’amore che fa ritrovare alla ninfa plebea la verginità sottratta da un ingiusto destino. A Gomorra non ci sono ninfe, solo plebei. E non c’è nemmeno lo sfrontato raggio di sole che illumina il nitore del basso napoletano, nei pomeriggi di canicola, trasmutando i vili metalli in oro. L’oro di Napoli.
Il conformismo è ben peggio della camorra (che poi di questo conformismo, si nutre). Spaventata, scarmigliata ed afona, Napoli ha bisogno di essere presa per mano da un poeta guerriero che simile all’arcangelo che vigila sulla terra murata di Procida impugni la spada e la bilancia e schiacci il demonio del pensiero unico e del risentimento, che risvegli dal letargo cuori appassiti per condurli pian piano a nuove ragionevolezze. Più in basso, non si puo’ scendere. Non siamo dualisti a chiacchiere: se esiste il buio, deve esistere per forza la luce. Dobbiamo cercarla. La troveremo? Se si vuole, si puo’.
Angela Piscitelli, 26 giugno 2011
Zona di frontiera (Facebook) – zonadifrontiera.org (Sito Web)
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