Ieri, 26 maggio, abbiamo nuovamente visto il «vecchio» Berlusconi, quello concreto e in buona sostanza veritiero. Aveva ricominciato, è vero, facendo la ruota con la rovinosa solfa «Io, io, io», ma poi per fortuna ha smesso. Solo una volta, quando ha accennato alle schede concepite in un modo poco chiaro che induceva in errore, è apparso arrampicarsi sugli specchi: questo difetto c’è stato, ma evidentemente giocava a sfavore anche degli avversarî. Per il resto, lodevole parresia: ha detto finalmente la verità sui motivi della sua contorta partecipazione all’affare libico (esplicita richiesta degli USA); ha confessato che le sue decisioni sono tutt’altro che immediatamente efficaci ed effettive; persino le sue sacrosante lagnanze sulla persecuzione giudiziaria sono riuscite potabili, perché ha icasticamente mostrato che essa colpisce non solo lui, ma tutti noi Italiani. (Tra parentesi: come giudicare funzionante una giustizia che regolarmente manda assolti i malfattori; che, redicivando, presta importanza ad un tristo pagliaccio qual è Ciancimino; che incrimina geologi serî per «mancata previsione di terremoti»; e insomma che applica una feroce severità a cio’ ch’è veniale o addirittura immaginario, ed una molle remissività verso il crimine vero? Berlusconi ha ragioni da vendere). L’intervista insomma ha funzionato: come dimostra la non mediocre acquiescenza dei tre inquisitori. Peccato che Berlusconi si sia risolto a concederla solo cosi’ tardi, e un’unica volta, dopo due anni di silenzio.
Il problema vero siamo ormai noi, il suo uditorio. Nessuno si sdegna per motivi serî e per guai da risolvere con urgenza; tutti si sdegnano eccessivamente per imbecillaggini, vuoi calcistiche vuoi di «politica mediatica». Voi pensate veramente, quando siete soli e non avete da temere l’ira della massa damnationis del politically correct, che Berlusconi e il suo Centro-destra siano talmente criminosi da giustificare le aggressioni di piazza, il lancio di treppiedi da fotografo e di souvenirs del Duomo di Milano; le legnate alle madri dei Pdl; le latte di benzina contro le sedi del Partito; gli estintori contro i Carabinieri, alla Giuliani, etc. etc.? Questo stile tra dissennato e belluino, innescato dai nostri genî televisivi, e dai mandanti De Benedetti, Scalfari e compagnia, è purtroppo il contrassegno d’una società che forse fu civile, ma che certo oggi è in disfacimento.
Meritano proprio legnate e colpi di coltello le cene con ragazze di Arcore? Perché mai, nella ragionevole Francia, non si preparano a pugnalare Strauss Kahn, se mai costui tornerà in patria? Perché mai il bunga-bunga con regolare compenso è degno di uccisione, mentre quello conseguito con violenza, a porte chiuse a chiave e con tanto di «Tu non sai chi sono io, quindi scopa e taci!», merita il sorriso di comprensione che si dona d’ufficio alla gauche caviar? Tutto cio’ segnala grande malafede negli opinion-leaders, e stolidità grande nella moltitudine di seguaci. Ma alla lunga, stolidità anche nei leaders, perché l’imbecillaggine indotta puo’ rivoltarsi contro gli stessi che la inducono: la storia ha mostrato molti tristi esempi, di cio’. E comunque -: sarebbe, o sarà, contento Scalfari di capitanare una società di cretini, di vili, o di individui costretti a fingersi tali? Non sono bastati i rimbecillimenti di massa dei tempi fascisti e comunisti? Forse venderà finalmente qualche copia dei suoi libri, questo è vero.
Da più parti si sente ora sorgere un preoccupato interrogativo: che fare, in caso di sconfitta del PdL? Quali atteggiamenti politici adottare? Io credo che la risposta, data la gravità del male che travaglia la nostra società, sia la medesima in caso sia di vittoria che di sconfitta. Bisogna riuscire ad orientare in senso diverso il sentimento della giustizia oggi invalso, che situa benevolenza e severità in modo errato, spesso addirittura opposto a quello auspicabile. I tre poteri di Montesquieu, ammesso che siano cosi’ nettamente separabili, debbono esprimere severità con i colpevoli, mitezza verso i perseguitati e i colpevoli immaginarî. Bisogna smetterla di sopportare che i giudici mandino assolti tutti quelli che polizia e carabinieri faticosamente acciuffano. Bisogna non più sorridere di comprensione quando certuni parlano a vanvera, con gravi infrazioni al costume, al buon gusto, alla decenza. Si dirà : ecco in arrivo uno stato di polizia! Nient’affatto, non invochiamo scervellati Asor Rosa di destra, che facciano appello ai poteri forti, all’esercito, alla polizia e ai carabinieri. Lasciamo questi sogni di violenza ai delicati cervelli della Sinistra. Invochiamo invece un appello al giudizio e al sentire medio della gente, della gente per bene e di tutti: dunque, un cambiamento di… costume. E’ ‘na parola!, come dicono a Napoli. Infatti: difficile, non agevole compito. Ma si puo’ disegnare, forse, la direzione da prendere. Di fronte a tanto furore pre-omicida degli eleganti caviar, solo chi non conosce il valore delle idee e delle relative parole puo’ non vedere che Berlusconi è un «liberale». Ma in Italia vige da molto tempo un’idea del liberalismo, e dei Liberali, del tutto falsa. Noi italiani crediamo che liberalismo sia sinonimo di delicata debolezza. Dimentichiamo che esso è tutt’altra cosa, e che tutt’altra cosa fu anche da noi. Forte, non debole, fu lo stesso atto di nascita della nazione: si pensi a Camillo Benso di Cavour. Forte è poi stato il liberalismo, dal d’Azeglio agli Spaventa, persino con il men forte Giolitti. Forte, tutte le volte che ha significato qualcosa, specialmente altrove: si pensi al «liberale» Churchill, che ruppe il muso ad Hitler e che non lo ruppe a Stalin solo per il parere contrario del sognante newdealista idealista Roosevelt. E si pensi alla liberale Thatcher, che alle Malvine stermino’ a varie migliaia di chilometri di distanza le velleità dei militaristi argentini, ubicati, a paragone, quasi nelle vicinanze.
Questo è liberalismo, il liberalismo desideroso di «innaturale» giustizia (la giustizia non è di natura), faticoso come tutte le cose innaturali, che occorrerebbe a noi Italiani. Noi che, tratta non si sa donde – anzi, si sa ben donde: dalla piccola borghesia, la nuova classe «generale» nostrana – l’idea cretinissima che la giustizia sia cosa agevole, che vien fuori dolce e gentile mediante un po’ di ipocriti minuetti al caviale (ma anche di giudiziarî colpi di lupara alla Ciancimino). Falcone e Borsellino non hanno insegnato nulla a nessuno.
« Cambiare la mentalità ed il costume » della gente!? Compito folle… ma non troppo. Non si sa per quale legge psicosociale, la gente puo’ cambiare ispirazione di punto in bianco, per miracoloso «contagio». Anzi: è solitamente proprio cosi’ che la gente cambia ispirazione ed idea. Come avvenne in negativo a piazzale Loreto; in positivo nel primo dopoguerra, quando tutti divennero entusiasti democratici ; e come è avvenuto, ad esempio, nel caso di Bassolino: di colpo, quando costui spunto’ alla guida della Campania, i disordinati, lerci, rumorosi Napoletani divennero zelanti civili propagandisti della pulizia, dell’ordine, del buon mantenimento della città. Fu un «voltafaccia» persino comico – certo, ci fu dentro anche l’ingrediente politico – , e fu protratto: sarebbe durato ancora più a lungo se il comportameto di Bassolino e compagni non avesse presto esagerato, cedendo alla interessata indecenza di cui tutti sappiamo.
Occorrerebbe dunque che, io non so come, Berlusconi inneschi di nuovo questa singolare ma frequente fenomenologia. Lo fece già una volta, nel ’94. Se voi girate per le piazze d’Italia, notate con meraviglia che gli Italiani, singolarmente presi, sono molto migliori e più ragionevoli di quanto appaiano allorché, tutti insieme, si producono in quanto «folla». Io voglio pensare che i «semi» di un riscatto ci siano, e siano molto, molto numerosi. Ci vuole l’intervento di quel catalizzatore politico che spesso abbiamo visto all’opera, ma di cui ignoriamo la natura. Non sempre l’esistenza, dei singoli e dei gruppi, passa soltanto per la coscienza. Molte cose importanti, di noi e della nostra vita, si producono a nostra insaputa, come il battito dei nostri cuori. Germoglia a questo modo anche la speranza, che poi, tuttavia, deve essere consapevolmente alimentata con opere degne di essa.
Leonardo Cammarano, 27 maggio 2011
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