Diciamola tutta: la politica estera è vista dall’opinione pubblica italiana come cosa non troppo interessante e degna di riflessione. È già da un pezzo che dalle cattedre sono spariti i mappamondo, né se ne vede traccia, dal fascismo ad oggi, nelle redazioni dei giornali. Provate a fare un’elementare domanda di geografia a qualche paludato opinionista e ne avrete conferma.
Ignoranza voluta, forse per un riflesso colpevole d’un sogno imperialista malfinito, ma anche perché la distruzione operata da 60 anni a questa parte dell’idea e della cultura di nazione ha trasferito il concetto di “estero” al quartiere limitrofo, alla regione confinante, al villaggio vicino. Ridotti al rango di tribù regionali o ideologiche, ci accorgiamo che intorno allo stivale c’è il mondo soltanto quando un seccante imprevisto ci sbatte sulle coste migliaia di poveracci in cerca di speranza, o se lo spettro d’una nube nucleare, effetto d’un terremoto lontano, ci costringe a rivedere la nota della spesa al supermercato: sarà contaminata l’insalata, cancerogeno il sushi, radioattiva la sogliola?
E poiché politica e stampa sono interamente soggetti alla legge di mercato, non essendoci domanda di politica estera, l’offerta non c’è. E tutti deleghiamo in qualche modo questa rottura di scatole alle sigle canoniche, ONU, NATO, ed a quei capolavori di pilateria conformista che si chiamano “risoluzioni”.
I nostri cugini francesi che hanno tutti la Marianna sul comodino, “l’esprit de Nation” e soprattutto non hanno Repubblica e Santoro, sono lesti a cogliere ogni occasione ghiotta si presenti per curare l’interesse della Patria e dilatare la loro influenza ben oltre i confini geografici. Le nostre rimostranze suonano pittoresche: perché diavolo dovrebbero pensare ai fatti nostri, se non ci pensiamo noi? Gli stati sono stati, non enti di beneficenza, e l’ONU non è un convento di suorine caritatevoli. Il colonialismo esiste, si è fatto solo un lifting ed anche da noi occorrerebbe ripensarlo ed agire di conseguenza.
Ed invece, cosa abbiamo combinato? Troppo occupati a polemizzare se è meglio Verdi o Mameli, fra un taglio di nastro, un raglio di regista e le lenzuolate di marmellata di Rubi, Ingroia, piemme e ciesseemme, ci siamo fatti fregare la Libia sotto il naso. E ieri abbiamo pure riconosciuto i ribelli, prima ancora di sapere chi sono, cosa vogliono e come va a finire. Inutile l’ammirevole sforzo di chiarificazione di Bruno Vespa, commovente ed isolato ministro degli esteri degno di tal nome.
Non bisognava dare le basi. Non bisogna armare i ribelli. Bisognava lasciare che la guerra tra tribù fosse fatta senza trucchi, e noi a monitorare la situazione per poi subentrare nella fase di negoziazione proponendo l’accordo più vantaggioso (per noi). Ed è inutile che ci raccontino la storiella che Gheddafi è un tipaccio: lo sappiamo. Ma gli altri che sono, eremiti, asceti, profeti? Oppure guerriglieri, pure furbacchioni che vogliono che si interpreti la famigerata 1973 nel seguente modo: “fate fuori Gheddafi così ci mettiamo noi? “Prendeteci pure per matti e per cinici, ma a noi questo “gioco delle tre tavolette” non ci convince mica. I ribelli ci hanno riempito di balle e ancora aspettiamo di vedere i 10mila morti sbandierati. Per ora abbiamo visto solo la macelleria umanitaria. E soprattutto non ci piace la loro aria di venditori di tappeti che vogliono prezzo intero, senza negoziare su nulla. Se proprio vogliamo armarli, vogliamo prima i tappeti: mica siamo tappetini. Il colonnello anche stamani ha aperto ad una possibile negoziazione. E noi che stiamo aspettando, il processo Ruby?
Ma per favore! Bisogna colonizzare se non si vuol essere colonizzati.
Angela Piscitelli, 5 aprile 2011
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